giovedì 7 agosto 2008















Roberto Borghetti, Insondabili nodi, Aljon Editrice, 2008, 55 pp, Euro 10


Da dove nasce un libro di poesie? Dalla fantasia, dalla realtà, dai sentimenti, dalle passioni, o che altro? Certo, non dalla quotidianità, primo perché l’odiata normalità non genera poesia, così si dice...S’incominciano a trasformare le parole, le si rendono diverse, inimitabili, grazie ad un aggettivo imprevisto, uno slogan ad effetto. Ed avviene il miracolo: il suono improvvisamente prende vita ed affonda la quotidianità. Ma quando è proprio l’osservazione spietata del vero che genera poesia, allora al miracoloso suono si aggiunge lo profondità dell’esistere.
Insondabili nodi , la prima raccolta poetica di Roberto Borghetti, sembra esprimere il groviglio in cui l’uomo contemporaneo si trova inestricabilmente invischiato, o si è trovato ad essere, l’incertezza non come scelta ma come un’abitudine, frutto dell’adattamento al reale, non già perché non si cerchi un’alternativa, ma perché non è possibile cercarla e meno che mai trovarla.

Un estraneo alla vita è l’uomo di Roberto Borghetti, per il quale il tempo non ha inizio né fine, ma si appiattisce sul quotidiano e non dà speranza di cambiamento (la metamorfosi agognata da Ovidio si è trasformata nell’inerzia di Kafka): non c’è scampo dai nodi. I temi usuali dell’inestricabile rete del vivere accompagnano la metamorfosi bloccata, la morte si cela dietro i versi di “Tremula notte”: Disteso dove il pensiero è piaga dell’infinito/ serbi la ferita che più non sanguina, e piangi/ (...) Poi ti sorprenderà la solitudine di una marea/ che segna la sua traccia di sale sul fasciame marcito/ di barche sconosciute alla morte. Non c’è una resa ma la presa di coscienza dell’incomunicabilità umana, come in “Treni, scorci e cos’altro rimane”:Siamo noi gli alberi che non fanno ombra/ sulla ferrovia ferma di treni e mai/ discorriamo tra noi sulla fine dei binari (...).
La raccolta presenta più di una volta l’immagine dei treni, della stazione, dei binari, dei bagagli e quindi del viaggio, ma non un viaggio reale, come si sarebbe auspicato un qualunque poeta del ‘700 o dell’ ‘800 ( e da qui la netta separazione con la crisi dell’uomo contemporaneo), né una fuga nel passato o nell’ esotismo, o ancora una semplice metafora della vita, ma un’acerba e cruda immagine dell’impossibilità, del mancato incontro. Quasi un opposto dei nodi, i binari non s’incontrano ma vanno paralleli, la stazione è solo sosta, il treno non permette di affacciarsi, senza una partenza e meno che mai un arrivo. Così in “Bagagli dismessi”: Tanto se dovessi tornare nessuno s’accorgerà/ indosserò tristezza/ abiti eleganti/ per fingere anche nel pianto.
Anche i titoli delle singole poesie della raccolta raramente richiamano il testo, per l’inevitabile rottura con il tutto, poiché l’io diviso non cerca specchi, ma frammenti, in continuo ossimoro con se stesso come in “Vi ritrovo ancora”: E la gioia non tarda a venire/ antica amica del cieco dolore.
Ma l’autore ci sorprende e comincia un dialogo con il «tu» dalla poesia “Raccontami i silenzi”...Il «tu» di una donna, di una madre, di un padre? Un «un» e non un «il». Solo alla fine ci sarà una sorta di riconciliazione. Ma andiamo con ordine. Roberto Borghetti, in questa desolata visione del groviglio inestricabile del non senso, si distingue per una profonda capacità di far parlare il paesaggio, di fare scarti improvvisi per isolare l’uomo e riportare l’attenzione sull’incapacità di comunicare (il dialogo con il «tu», appunto), di trovare un senso ed in questa parte campeggia l’io sperduto, ma non diviso o lacerato, poiché trova nella noia e nell’oblio antinomicamente la sua pienezza. Da qui una serie di titoli, che richiamano il rapporto interrotto tra passato e presente, avvinti dall’alienazione interiore più che esteriore: “Sulla tela annoiata”, “Una calma trafittura”, “Camminare è anche smarrirsi”, ed inoltre “Sassi”, “Timidamente Vieste” e “Verso il poggio”, nella quale si nota l’impossibilità del poeta di trovare senso nella natura conosciuta e familiare: E lasciarsi affogare dalle lacrime/ di scorci che non hanno più giaciglio/ e più non sanno innervare speranze”.
La certezza, unica e assoluta, è l’impossibilità di «stare al mondo», ricreando antiche armonie, ormai perdute o mai possedute (da qui nasce un lacerante ritorno ai ricordi del passato o alle vite degli altri –antenati, amici- che non riesce a ricreare nella propria esistenza).

E si arriva all’ultima parte, nel tentativo di riprendere un percorso, infatti, il poeta ritrova un legame con «il» padre in “Coltiverò in assenza il seme”: Le sparse radici, restano/ e mi è lieto il vivere accanto ad una terra/ che non m’implora solo acqua, ma inverni/ meno pietosi al gemmare dei rami. Questo legame acquista più spessore poi in “Ancora gennaio”: Padre è passato troppo tempo/ tornerò presto a rinnovare i fiori.
Centrale a questo punto è la poesia “L’esilio ha inizio dalle stelle”, in cui si evidenzia in tutta la sua tragicità la fragilità umana, divenuta paradigma dell’esistere, riflesso della mancanza di appartenenza, di un posto nel quale dimenticare il proprio isolamento, la certezza di non esser-ci; volontario o incompreso isolamento, un percorso che l’ha portato altrove, ma un «altrove» senza identità: Siamo solo particelle di vapore nel respiro del capodoglio/ formiche d’inverno nell’ondeggiare dell’erba smeraldo/ distese prossime a fiori e rovi/ che il gelo spezza a metà del gambo.
Alla fine Roberto Borghetti ritorna a se stesso, senza paura e senza rimpianto, accettando la sua dimensione di uomo moderno, non più titano ma semplicemente uomo, nella sua compiaciuta solitudine senza estasi come in “Fantasmi a Milano”: Non scenderò alla mia fermata/ ho visto randagi affannati, adoro/ regalare carezze a chi mi scodinzola incontro.
Angela Lo Passo

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