lunedì 15 dicembre 2008



Pasquale Napolitano, Frammenti del fuoco, AljonEditrice, 2008.
“Il libro ci rinvia a un solo libro: quello della nostra lettura. Avendolo letto, non avremo condiviso niente, ma avremo tenuto tutto per noi o concesso tutto senza contropartita. Secondo l’esempio soverchiante di Dio.
“Come leggere una pagina già bruciata in un libro che brucia, se non facendo appello alla memoria del fuoco”, diceva un saggio.
E aggiungeva: la traccia lasciata da un libro, forse, è soltanto un persistente odore di istanti bruciati . Il tempo necessario a un mucchietto di cenere, per finire di consumarsi, varia secondo la sua durata.
Diceva ancora: La fiamma si ricorda solo della fiamma. Così il patto col libro non è che il patto segnato dal fuoco. Il nome muore per primo.”
Nella prova di vivere profondamente la vita di questa raccolta di poesia di Pasquale Napolitano, Frammenti del fuoco, edito da Aljon Editrice, queste parole iniziali di Edmond Jabès rappresentano certo, nella loro oscura esigenza di manifestarsi non tanto per farsi intendere, ma quanto di farsi sentire appieno dentro di noi, un buon esercizio per apprestarsi alla condivisione.
Poi il libro di Napolitano ci accoglie nel suo mondo di carta e di segni, nella sua vita che traspare lungo il viaggio dello sguardo.
È ogni istante del libro è lì, sulla pagina, che attende visitatori sconosciuti ma sempre ben accetti per viverne il senso e l’anima che lo alimenta.
È un libro splendido perché specchio di una vita e di un percorso.
È un libro che nutre lo spirito e la parola è sempre carica di un mistero, mai oscuro, ma rivelatore del qui e adesso, uguale e sempre diverso, nella consapevolezza che se si guarda col cuore il mondo non può che vedere se stesso… Leggiamo:

Quel lama tibetano
o, forse, monaco trappista
o guru hymalaiano,
non diede risposte,
ma disse:
“Fratelli son parte del gioco.
Tra le tante
ho imboccato una porta:
tener vivo il sentiero
dell’accettare le cose
così come stanno”.
Come a dire io non cerco ciò che voglio, ma ciò che mi accade. E sono infinitamente in ciò che mi accade perché qui e adesso io sono: ieri non esiste più, oggi si consuma nelle grafie del respiro dell’istante, domani non esiste ancora.
Ogni poesia di Napolitano è qualcosa di più anche quando ci consegna istanti privati. Come in questa poesia a pag. 23:
Si va cercando una sintonia
con la stagione che cambia,
con i segni lasciati da altri,
con i vasti modi
d’intendere la vita:
una lanterna
sospesa tra i rami di un pero,
una carriola
adattata a fioriera,
un orto
rigato a pentagramma.
Tra le ultime pannocchie
giostra una girandola
e nostra figlia Paola che dice:
“Anch’io papà voglio
catturare il vento”.
Ma certo, dolce mia.

Da qui con Confucio dire:
“E’ necessario conoscere il punto dove bisogna fermarsi, il punto al quale arrivare. Conoscendolo, si ha la tranquillità. Avendo la tranquillità, si ottienila pace. Ottenendo la pace, si possono prendere le decisioni. Potendo prendere le decisioni, si può agire.”
Si respira aria di pace in questo libro di poesie.
Una pace cercata ovunque gli occhi non guardino distratti.
Misurata con il senso e il sapore delle cose.
Mai rincorsa.
Neppure attesa.
Nessuna forzatura nell’accoglierla.
Ma semplicemente respirata sotto l’ombra di una grande statura morale.
E poi l’incontro con la poesia. Naturale, una lezione di armonia nel canto della vita e della pagina.
Ma è sempre il fiore dell’anima ad aprirsi. E porta fiducia, certezza, sapienza.
A pag. 39 leggiamo:

Scrivo
le poesie
che avrei voluto leggere.
Da Pablo
le poesie
che avrei voluto vivere.
Solo di vissuto
scrivo.


La scrittura. La lettura. La vita. Un grande poeta: Neruda.
“La leggibilità – direbbe ancora Jabès – ha i suoi limiti. Solo sui nostri occhi, sulla nostra intelligenza possiamo contare, per tentare di cogliere ciò che lo scritto contiene; solo attraverso i limiti insopportabili di una parola letta possiamo accostare l’infinito di una parola da leggere. Sicchè è sempre contro una parola impossibile che urtiamo; e a cui sacrifichiamo la nostra.”
E qual è questa parola impossibile, quale se non quella che parte da un silenzio puro, da un ascolto teso che fa emergere le vibrazioni, i ritmi, i polsi delle cose?
Napolitano è del suo vissuto che scrive che non è mai ordinario.
Il clamore del mondo non soffoca la sua voce interiore. Vede con i suoi occhi e con il suo cuore. Sa cogliere l’aura spirante dalle persone e dai luoghi. Ha imparato a vivere sapendo che questa lezione non gli servirebbe a nulla se appesantisse la sua anima.
Con Confucio ancora direbbe:
“ So che la norma non può essere spiegata. Gli uomini elevati vanno oltre ad essa, gli immeritevoli non giungono a capirla. Non è forse vero che tutti gli uomini possono mangiare e bere, ma soltanto pochi sanno capire ciò che ha sapore?”
C’è una poesia che amo molto in questi Frammenti del fuoco ed è quella a pag. 24. Recita così:
Non sono questi
i versi di domani,
quelli
navigano ancora
dentro altri inchiostri,
verso altri fogli,
portati, forse,
da altre mani.
Non sono queste
le nuvole che verranno,
quelle
dormono ancora
nella bocca dei pesci,
e sono onde
che sanno di sale.

Presente e futuro sono qui raccolti. Tutto è vivo qui. Ciò che non si vede e ciò che si vede. Ciò che accade e ciò che accadrà.
Il poeta sembra suggerirci: ci sono io e c’è il mondo, siamo onde dello stesso mare. Siamo quel mare. In quando onda possiamo anche illuderci di essere qualcos’altro, ma mai smetteremo di essere quel mare.
Anche l’opera di Francesca Rizzuto, Percorsi casuali, pubblicata sulla copertina del libro riesce a cogliere a pieno, nel suo mistero questo incontro di anime, di mondi, come a ribadire la forza e la grandezza di questo mare che contiene tutto e il contrario di tutto, perché il senso della vita sta fuori e dentro di noi, nel cuore di un evento interiore uguale e diverso che nasce, vive, muore, rinasce quando lo spirito, la pura capacità testimoniale nell’uomo, si eleva al di sopra della psiche e dei relativi condizionamenti corporei.
Per concludere, parafrasando Blanchot, se ritenessimo utile sintetizzare in pochi tratti essenziali la forza della poesia di Pasquale Napolitano e dell’arte di Francesca Rizzuto, potremmo accontentarci di dire, che in loro c’è questa parola e questo sguardo futuro, impersonali e sempre a venire, là dove, nella decisione di un linguaggio nascente, ci viene comunque parlato intimamente di quel che a noi prepara il destino più prossimo e immediato. È per eccellenza il canto del presentimento, della promessa e del risveglio – non che sia Napolitano che Rizzuto esprimano quel che sarà domani, né che in loro ci sia rivelato con chiarezza un avvenire felice o infelice , ma soltanto il collegamento, nello spazio del presentimento della parola, dell’immagine al loro corso per trattenere con fermezza la nascita di un orizzonte più vasto.
L’avvenire è raro ed ogni giorno che viene non è un giorno che inizia.
E ancora più rara è questa parola poetica, che nel suo silenzio è riserva di una parola a venire e ci volge sia pure nel momento supremo di una fine, verso la forza dell’inizio.

Bonifacio Vincenzi

sabato 25 ottobre 2008



Anna Maria Farabbi, La luce esatta dentro il viaggio, pp.19, Aljon Editrice, 2008.

(copertina di rame, a tiratura limitata, in cinquanta esemplari, numerati e firmati dall’artista Francesca Rizzuto che ha realizzato a mano sia la copertina che la legatura di ogni singolo libretto. La stampa, in caratteri Garamond, è invece su Carta Tintoretto da 350 grammi delle cartiere Fedrigoni .)

C’è un qualcosa che ci accompagna senza posa, nel quotidiano deambulare di sguardi, nel variegato riconoscere sensazioni… un qualcosa di inafferrabile, quasi un alito di vento che, nella sua infaticabile corsa, apre a nuovi stimoli sensoriali il nostro corpo. E non è difficile riconoscerne il passaggio, tanto profondi s’impongono i solchi sulle nostre vite.
Ebbene, è l’agire primordiale del logos, la sua spontaneità rituale che assume la forma del verso e si fa vita esso stesso, mettendoci in contatto. Ma è altresì l’estremo bisogno di trasmettere il verbo, la necessità di incidere, di intraprendere un sacrificio materiale che ne concretizzi la natura fugace per poi eternizzarla.
Ci riescono bene, ad eternizzare, Anna Maria Farabbi e Francesca Rizzuto, artefici del prezioso volume La luce esatta dentro il viaggio. Entrambe, colte nel segreto demiurgico del “Fare”: la prima tra gli strumenti semiotici della parola poetica; la seconda tra gli imprescindibili appigli della materia informe.
È come attraversare un mondo, direbbero i lettori, un mondo dove la dimensione metafisica del “non-ancora creato” diventa viaggio verso la realtà degli occhi, della bocca, dell’orecchio. Perché “Il Roseto di Kisgas” (titolo della collana a cui appartiene il volume) nasce proprio con questa esigenza. Così che, il totale coinvolgimento dei sensi passa magistralmente dalla fissità grafica dei tasselli poetici alla sapienza arcaica del lavoro manuale, di quel “rituale di costruzione” che la Rizzuto dimostra di possedere appieno, talvolta smussando il rame della copertina, talaltra forgiando gli anelli che rilegano le pagine.
L’occhio, dunque, non si accontenta di godere delle occasioni testuali più palesi (un viaggio in Namibia cominciato dalla Farabbi nel 1993), ma scandaglia la fisicità del supporto cartaceo sposando arte verbale e arte manuale, sacrificio del “dire” e fatica del “fare”.
In tal senso, la rivelazione del secondo componimento della raccolta, Passaporto filiale per il passaggio, è illuminante:

Mi siedo sul sasso sotto il peso finalmente mi siedo
e finalmente i miei piedi passeggeri fermi
coincidono
nel senso del mio rinnovato cominciamento
dentro queste viscere materne e sorgive.

Ma, se la maternità riassume la natura femminile della collana, solo un rinnovato cominciamento può guidare due donne come Anna Maria Farabbi e Francesca Rizzuto nel lavorìo della forma, nell’architettura spaziale del sapere.
Tanto che gli intenti di poetessa e artista viaggiano sì paralleli, ma snodandosi in modalità essenzialmente complementari: gli ininterrotti riti di passaggio che si sperimentano leggendo i versi, i pregnanti affondamenti nel grembo della terra, o ancora, la narrazione / di una carne geografica (poesia n. VIII) che scandisce la fruizione del canto, sono tutti riflessi dell’affascinante genio creatore di chi ne accoglie, come in uno scrigno ancestrale, le molteplici significazioni umane.
Concedersi, in fondo, resta l’unico valido spiraglio. Concedersi non barattarsi, avere la forza di annullarsi per riemergere nell’anima di qualcun altro in grado di comprendere ed apprezzare i nostri intenti, la nostra incontenibile generosità. Questo sembra essere, infine, il messaggio di questo primo germoglio editoriale nel promettente “Roseto di Kisgas”.


Pierino Gallo

sabato 13 settembre 2008





Maria Pina Ciancio, La ragazza con la valigia, Lieto Colle, pp. 57, Euro 10,00


Ogni volta che ci si avvicini ad un poeta, o come in questo caso, ad una poeta, per usare una definizione più consona ai nostri tempi, non è un avvicinarsi invano, non lo è mai, e non lo è perché qualcosa accade sempre ed è veramente mirabile, come una delicata verità, rivelatrice sempre di quel patrimonio straordinario che ci fa essere ciò che siamo, possa fondersi in questo alone di mistero che è della poesia, mai svelabile totalmente, ma così vivo, così palpabile se accarezzato dal calore di uno sguardo e dal fruscio dei fogli che accompagna sempre il nostro personale percorso di lettura.
Il mio incontro con Maria Pina Ciancio è recente.
Fino a qualche settimana fa, questa vicinanza era racchiusa nell’inconsapevole possibilità dell’avvenire, quella che ci nega al Tutto, ma nello stesso tempo ci fa comprendere che di questa negazione non siamo mai prigionieri, perché noi siamo parte di questo Tutto e lo siamo nella nostra infinita libertà, non tanto percepibile nelle scelte, ma quanto nella capacità di sapersi aprire all’inaspettato, nel momento in cui sollecita “una parola – ricordando Jabès – che forgia i suoi legami di silenzio nel silenzio abissale del legame.”
E i legami in questo volumetto di poesie di Maria Pina Ciancio, La ragazza con la valigia, edito da LietoColle, hanno una loro forza, diventano il giusto tramite per dire che la realtà non è mai fuori dalla poesia, e se lo è, lo è solo apparentemente, perché in questo silenzio ribadito dalle parole, nell’oscuro impulso che la pagina accoglie e poi trattiene, incontriamo inevitabilmente noi stessi e il nostro piccolo mondo degli affetti, ripercorrendo gli strati più profondi della memoria…
A tal proposito, mi pare opportuno leggere a pag. 21 la poesia “Sipario tra le righe”…

Forbici… bisturi… filo
comincio a scucire gli orli del passato
Daria mi richiama e riordina i ricordi
Piera drammatizza e impazzisce sulla scena
il primo attore ha fame e ingoia le battute
Forbici… bisturi… filo
e mi ricucio in fretta
chiavistello sfibrato a doppia mandata”



La pagina diventa teatro di una rappresentazione su cui palpita una trama vagamente musicale. Ci sono gli attori. C’è la vita. Quella che si riconosce e ci riconosce. E c’è la poesia dove la realtà non fa che ribadire la sua assenza e ribadendola la riproduce, diversa all’apparenza, ma mai nell’essenza.
La voce poetica della Ciancio simula i timbri di voci reali che lei conosce bene intonandoli a quella melodia persuasiva e seducente della sua anima sì disincantata ma che sa cercare nel suo fare poesia quella lenta, laboriosa opera risanatrice che riplasma ciò che quotidianamente scompare…

“Te ne andavi in punta di piedi
accompagnata (solo) da tua madre
e una campana a lutto

il fazzoletto già nero
e il rosario annodato alle dita

e di tutto questo non restava
né volto, né nome in paese

ma solo una storia taciuta” ( pag. 33)


In questa storia taciuta, però, c’era una vita. E quella vita si specchiava in altre vite.
C’è uno spazio di silenzio in ogni istante, dove noi viviamo inconsapevoli di altre vite, di altri mondi. Tutto questo non equivale ad una morte? E non è che la morte, disattivata della sua terribilità, non sia, in una percezione più alta, semplicemente il volto oscuro della vita, quello che non abbiamo il coraggio di guardare?
Per quanto crediamo di saperne alla fine restiamo attaccati alla luce come le falene. Il resto ci spaventa perché sottolinea ed esaspera i nostri limiti.
Nel nostro personale “grido di terra” cerchiamo sulla pagina il nostro passato e nella pausa che per un momento assorbe il mondo esterno, fra gli scatti del tempo, non ci sono conflitti, o se ci sono, significano nulla nelle vaghe ombre animate dallo sguardo…


“… e adesso quando il vento si alzava
e urlava a più voci
sbattevano le porte di quella stanza rosa
dove tutto era fermo (presente e domani)
e i pensieri un rovescio
che il vento di notte percorre

e misura” ( pag. 26)


Da qui la poesia della Ciancio cerca nella parola che non sa sperare quella vita promessa e mai avuta.
La cerca negli occhi di una donna che continua ad esserci nonostante il suo sguardo misuri la densità della sua sconfitta…

“ Ci sono ancora porte chiuse
sulla cristalliera dell’infanzia di Anna
una chiave nascosta
nella scatole di scarpe di suo padre
e silenzi di braccia senza mani
raccolti sottovoce
tra pozzanghere di sogni
virati dall’errore” (pag. 27)

La Ciancio fa poesia non per porre fine a tutto questo, ma per prolungare questo doppio volto della vita, questa estrema lacerazione, questo grido consegnato al Silenzio, nella consapevolezza che comunque, nonostante tutto, questo è parte di noi, importante, e rinnegarlo significherebbe sottrarre a noi stessi gran parte della nostra esistenza…

“… Siamo qui e altrove
assottigliati al vento
e alle parole
in mezzo al bianco
che scandisce e svela
i graffi e le ferite…”

Il premio inaspettato della luce (pag. 57)

Scriveva Jabès:
“Il volto non è là dove si staglia, ma dove si libera dal peso dell’apparenza e della sottomissione.
Questo volto sconosciuto ai miei occhi ma così familiare alla mia anima, lo ricostruisco nei minimi particolari. Fu una volta, luogo puro dello spirito, crocevia di pensieri avventurosi, prima di essere, al culmine della sua miseria, volto d’abisso.”
Ed è lo stesso volto che riconosciamo nella poesia della Ciancio che chiude questa raccolta il cui titolo, La ragazza con la valigia, non a caso, è stato scelto per unire l’intero percorso poetico.
La poesia recita così:

Scese dall’autobus
la ragazza con la valigia e sorrise

con le mani lievitate di terra e luna

sorrise


Questa poesia è la più significativa dell’intera raccolta e di questo la Ciancio ne è consapevole perché in questi cinque versi si respira la vita nella sua totalità.
E le motivazioni di questa affermazione, ora che mi avvio alle conclusione, a darcele è ancora Jabès quando scrive:

“Entriamo nel futuro con un bagaglio limitato. È vietato portar tutto con sé. Ma chi ce lo ordina? Al termine della luce ci si spegne, finalmente nudi, tra le ombre.”

Bonifacio Vincenzi

lunedì 25 agosto 2008


Franco Prantera, il quinto arto, Ibiskos Editrice Risolo, 80 pp., Euro 11,00.
Questo piccolo e prezioso testo si legge con una sorta di curiosità che predispone verso una lettura impegnata da una parte a rintracciare nel testo ascendenti filosofici- religiosi molto chiari, dall’altra a cogliere, in modo altrettanto chiaro, quello che è il pensiero dell’autore.
Il libro si suddivide in sette capitoli: La religione, I cristiani, La sessualità, Il possesso, L’Arte, La libertà, Dio.
Nella sostanza questa suddivisione non si discosta da una linea che presenta come maggior pregio la facile ed accessibile leggibilità, impostando una convincente soluzione di compromesso tra i criteri tradizionali di approccio ai diversi argomenti e la capacità dell’autore di esplorare ogni dettaglio con il suo particolare punto di vista.
La pluralità delle dottrine, delle problematiche, dei linguaggi viene introdotta nelle maglie di uno schema teoretico unitario e ciò che si respira alla fine è un retromondo fittizio quasi totalmente oscurato dal mondo reale con le sue regole dettate perlopiù dalle influenze dei poteri forti.
“Ritornare ad uno stile di vita più naturale – scrive Prantera – è essenziale per ritrovare la vera sostanza del nostro spirito e con esso la percezione di Dio.”
Questa affermazione rappresenta un po’ il nucleo centrale dell’intero pensiero dell’autore anche quando poi si allarga verso le sue diverse sfaccettature.
C’è un libro che io amo molto, Les Grands Initiés, di Edouard Schuré.
Ebbene, dalla profonda lettura che l’opera di Prantera ha richiesto, mi è venuto quasi naturale pensare all’opera di Schuré e a quel particolare capitolo dedicato a Ermete.
Il nome di Ermete, il misterioso e primigenio iniziatore dell’Egitto alle sacre dottrine che i greci, discepoli degli egiziani, chiamarono Ermete Trimegisto, o Tre Volte Grande, per la sua triplice funzione di sovrano, legislatore e prete, è legato ad una figura che “vide la totalità delle cose e, vistala, comprese; e con la comprensione acquisì la forza di testimoniare e di rivelare.”
Nel capitolo che Schuré dedica ad Ermete ad un certo punto si legge:
“Alla base dell’antica iniziazione c’era una concezione più sana e più elevata della nostra. Noi abbiamo dissociato l’educazione del corpo da quella dell’anima e da quella della mente. Le nostre scienze fisiche e naturali, pur di per sé molto avanzate, fanno astrazione del principio dell’anima e della sua presenza nell’universo; la nostra religione non soddisfa le esigenze della mente; la nostra medicina ignora l’anima e lo spirito. L’uomo di oggi cerca il piacere senza la felicità, la felicità senza la scienza e la scienza senza la saggezza. Il mondo antico non ammetteva che le tre cose si potessero separare.”
Da qui, il divenire, soprattutto nella nostra civiltà occidentale, è visto ancora come estrema minaccia, caos, e anche dolore.
Gran parte della filosofia contemporanea è sempre più caratterizzata dalla dissoluzione della metafisica con il relativo trionfo dello scetticismo che ci tiene ancorati ad una realtà che comprendiamo soltanto alla superficie.
L’uomo, infatti, profondamente nulla sa di se stesso. E pare non preoccuparsi più di tanto di saperne di più.
Alla fine il maggior pregio di un testo come questo che Prantera ci propone è quello di aiutarci a capire ciò che eravamo, ciò che siamo e dove stiamo andando.
Sicuramente, attraverso le riflessioni che stimola, può essere, in qualche modo, un rimedio all’appiattimento culturale del nostro tempo e favorire sicuramente, attraverso la lettura, una rigenerazione di tutto il nostro essere fisico, morale ed intellettuale.


Bonifacio Vincenzi

venerdì 15 agosto 2008



Pierino Gallo, Pasolini tra Pascoli e Baudelaire. Intertestualità e influenze ne "Le ceneri di Gramsci", Il Coscile, 2008, 81 pp, Euro 10.

“ I confini di un libro non sono mai netti né rigorosamente delimitati: al di là del titolo, delle prime righe e del punto finale, al di là della sua configurazione interna e della forma che lo rende autonomo, esso si trova preso in un sistema di rimandi ad altri libri, ad altri testi, ad altre frasi: il nodo del reticolo. E questo meccanismo di rimandi non è omologo, a seconda che si tratti di un commento di testi, di un racconto storico, di un episodio di un ciclo romanzesco; l’unità del libro, anche intesa come fascio di rapporti, non può essere considerata come identica nei vari casi. È inutile che il libro si dia come un oggetto che si ha sottomano; e inutile che si rannicchi in quel piccolo parallelepipedo che lo racchiude: la sua unità è relativa e variabile. Perde la sua evidenza appena lo si interroga; incomincia ad indicarsi e a costruirsi soltanto a partire da un campo complesso del discorso.”
Così Michel Foucault in quel bellissimo libro che è L’archeologia del sapere tenta spingendosi un poco più avanti, come per un nuovo giro di spirale di “far apparire , nella sua specificità il livello delle “cose dette”; la loro condizione di apparizione, le forme del loro accumulo e della loro concatenazione e le discontinuità che le scandiscono.”
Mi è sembrato utile partire da Foucault per tentare di tracciare questa mia breve testimonianza, su quest’opera di Pierino Gallo; Pasolini tra Pascoli e Baudelaire – Intertestualità e influenze ne “Le cenere di Gramsci”, edito recentemente dall’Editrice Il Coscile perchè la trama oscura di un’opera spesse volte è inviolabile e i tentativi, a volte anche maldestri, dello svelamento imboccano, più che la via principale che attraversa l’opera, viottoli, diramazioni, sentieri che pur non allontanandosi dall’opera, contribuiscono, in questo stato d’assedio interpretativo di cui sono vittima i nostri grandi autori del 900, non dico a creare confusione, ma sicuramente ad allontanarci dalla genesi dell’opera , che spesse volte è sconosciuta anche all’autore.
Partendo da questo mi pare assai coraggioso questo debutto nel campo della saggistica di Pierino Gallo perché rivela di non aver nessun timore nel momento in cui decide, per esempio, nel terzo capitolo intitolato “ Poetiche escursioni dalle “Ceneri” a Les Fleurs du mal” di affrontare una tematica che cerca una chiave interpretativa tra i versi di Baudelaire e quelli di Pasolini, dove veramente esigui sono i contributi critici a riguardo.
Coraggio, certo.
Ma soprattutto consapevolezza non tanto dei propri mezzi – Pierino Gallo è troppo giovane ed ha il dono raro, in questo ambiente, dell’umiltà
per osare così tanto- ; ma consapevolezza di una passione che lo sovrasta: la passione per la Letteratura.
Certezza di non potersi sottrarre a questo richiamo.
Proiezione di una volontà edificata su scelte che necessariamente debbono caratterizzare un percorso già iniziato, e per forza di cose alimentato da questa fiamma interna impossibile da spegnere.
Per ritornare al libro - che mi sembra abbia già una forza di struttura supportata di una precisione e intensità di scrittura, e questo di per sé, a mio avviso può già predisporre l’autore verso giuste ambizioni, mi soffermerei ancora un po’ sul “maledettismo” poetico sottolineato da Gallo in questo raffronto tra i versi baudelairiani e i versi pasoliniani.
Dice Agamben che “ il male è unicamente la nostra inadeguata reazione di fronte a questo elemento demonico, il nostro ritrarci davanti a lui per esercitare – fondandoci in questa fuga – un qualche potere di essere. Solo in questo senso secondario l’impotenza o potenza di non essere è la radice del male. Fuggendo davanti alla nostra stessa impotenza, ovvero cercando di servirci di essa come di un’arma, costruiamo il maligno potere con il quale opprimiamo coloro che ci mostrano la loro debolezza; e mancando alla nostra intima possibilità di non essere, decadiamo da ciò che soltanto rende possibile l’amore.”
Forse Pasolini e Baudelaire battendo questa regione oscura, pur combattendola, non sono riusciti a rimanere immuni alle varie sfaccettature della sua seduzione.
D’altronde Zolla ci avverte che l’inconscio è la regione non battuta dove gli opposti, piacere e pena, appaiono simmetrici.
Scrive Pierino Gallo a pag. 42:
“Dalla Parigi di Baudelaire alla Roma di Pasolini si snodano vicende e si raccontano vite che, pur mutando la compagine politica, restano ancorate ad un unico dilemma: quello tra le pulsioni materiali e il desiderio di elevarsi.”

E prosegue a pag. 43:
“Sono i gradini più bassi della gerarchia sociale a diventare protagonisti del viaggio baudelairiano e pasoliniano. Un viaggio che si serve di scene reali, di un erotismo putrido e disperato, da una passione impura, da emarginati.”
Il coinvolgimento dei poeti è totale.
Inevitabili i risvolti drammatici che conosciamo.

La prima parte del libro di Pierino Gallo è dedicato invece all’influenza importantissima che Pascoli ha avuto su Pasolini.
Anche questa analisi è puntuale e ben espressa.



Bonifacio Vincenzi






venerdì 8 agosto 2008








Salvatore Pistoia Reda, Lettera ad un politico Calabrese,
Città del Sole Edizioni, 2008, 119 pp, Euro 10

“Molto più di una semplice missiva questo j’accuse di Salvatore Pistoia Reda ha i contorni di una grande riflessione sul presente, vissuto in modo passionale da un individuo che sa comprendere i drammi di una realtà apparentemente non disposta al mutamento. Ma il lettore non pensi di aver di fronte l’ennesima invettiva. Bensì, attraverso una scrittura limpida e consapevole, mai barocca eppure curata e letteraria, Pistoia Reda vuole offrirci l’alternativa del pensare, un tentativo di vedere il mondo con occhi diversi. Il contesto non è uno sfondo, diventa la ragione d’esistenza di un modo di conoscere: i travagli di una regione ormai affossata dall’inconsistenza progettuale della politica, eppure carica di potenzialità, di vita, di voglia di riscatto, ne sono l’inconfutabile oggetto. Attraverso la mente di un giovane che non ha dimenticato il senso di appartenenza e l’impegno che si deve a ogni intellettuale di prim’ordine, si palesano le possibilità di un vero progresso civile e culturale.”

Marco Gatto, dalla quarta di copertina

giovedì 7 agosto 2008





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Andrea Camilleri, Maruzza Musumeci, Sellerio, 2007, 140 pp, Euro 10


Questo «cunto» è una maneggevole storia naturale delle Sirene. E anche una «storia morale». La vicenda si svolge a Vigàta, tra Ottocento e Novecento. In contrada Ninfa, che è una lingua di terra sul mare: un'isola immaginaria, odissiaca, che figura ancora sulle rotte dei mitici navigatori; ed è visitata dai sogni incompiuti dalle metamorfosi di pescatori, naiadi, e cretaure marine. Le Sirene non sono pesci con il rossetto. Sono donne feconde, terribilmente seducenti. Vivono tra gli uomini. Abitano gli stessi luoghi, ma non vivono nello stesso tempo. Vengono da una profondità di millenni: sono troppo vecchie o troppo giovani, al di sopra della vita e della morte. Hanno uno sguardo lungo sul passato. E un'immota fissità di ricordi. Non hanno dimenticato l'offesa di Ulisse. Sono le vestali e le vittime del loro segreto. Il rancore e il desiderio di vendetta risvegliano in esse l'animalità selvaggia. Cercano però un'uscita dalla ferinità, per entrare nel tempo degli uomini. Il «cunto» di Camilleri è una poetica favola vichiana. Maruzza e la sua bisnonna parlano in greco tra di loro. Ed è sui versi dell'Odissea che le due Sirene verificano eventi ed emozioni. Il loro canto è sensuoso. Ma sa essere pure un complotto d'acque, un irresistibile richiamo di onde e scogli. Maruzza e la bisnonna si disfanno dei fantasmi finalmente sconfitti di Ulisse e della sua genìa. E individuano nel bracciante e muratore Gnazio Manisco, che dall'America è tornato nella sua Itaca vigatese, odiando il mare e viaggiando sempre sotto coperta, un anti-Ulisse. Maruzza si sposa con Gnazio. Felicemente. Comincia la vita nuova di una Sirena con marito e figli. La famiglia della Sirena convoglia cielo e mare. Il primogenito Cola diventa astronomo. Scopre una stella. La chiama Resina, con il nome di sua sorella, la Sirenetta. Nel 1940, Cola rientra dall'America nell'Italia in guerra. La sua nave viene affondata. La Sirenetta corre dal fratello. Con lui si inabissa per sempre, là dove si apre una grotta dentro una campana d'aria. In quella grotta la letteratura aveva già portato l'avvocato Motta di un romanzo di Soldati. In quella «dimora» aveva realizzato il suo «sogno di sonno» l'ellenista Rosario La Ciura del racconto La sirena di Lampedusa. La guerra ha i suoi naufraghi. Un giovane soldato americano finisce sull'isola immaginaria di Vigàta. È steso sotto un ulivo saraceno. Prima di morire accosta all'orecchio la grande conchiglia indiana delle Sirene. Muore consolato dal canto della bisnonna e della Sirenetta. Le Sirene non uccidono più. Amano e soccorrono. Come nel racconto di Lampedusa. E come nella Sirenetta di Andersen. Il «cunto» di Camilleri è, infine, e sorprendentemente, un «cunto de li cunti».

Salvatore Silvano Nigro









Marisa Provenzano, Qualunque cosa accada... amala, Aljon Editrice, 2008, 117 pp, Euro 11




“Qualunque cosa accada, accettala”. E’ questo l’imperativo, tanto ingiusto quanto banale, che la nostra cultura ci impone. Ma Sofia, la protagonista del romanzo di Marisa Provenzano, va oltre e lo trasforma, raggiungendo un livello di grande profondità, in Qualunque cosa accada… amala (Aljon Editrice). E questa è tutta un’altra storia, in cui la persona da oggetto della sorte diventa soggetto. I modi e i luoghi mentali dove questa trasformazione, basata sull’integrazione tra razionale, emozionale e affettivo, è resa possibile, permeano tutta la narrazione.Non è un caso che Marisa Provenzano abbia una formazione filosofica: tutta l’opera è pervasa da riferimenti concettuali che vanno dalla ricerca dell’assoluto alla giustificazione risignificante del piccolo e del grande evento.Il libro si inserisce nel contesto di quella letteratura che vuole comunicare una morale: qui è una madre che trasmette al figlio, con la parola, ma soprattutto con la propria storia, i valori al fermo possesso dei quali lei è giunta a un duro prezzo. Perché ha saputo leggere gli eventi e, non solo: ha saputo usarli per la sua crescita interiore.E questa trasmissione avviene con un linguaggio semplice, proprio di chi ha le idee molto chiare su ciò che sta dicendo, e con una coloritura emozionante. E qui ritroviamo la Marisa Provenzano poetessa che già avevamo avuto modo di conoscere ed apprezzare.Un libro, questo, da leggere su più piani. Se ne gode la prosa a tratti veramente poetica; si riflette sul senso della vita e, in essa, del dolore; si apprezza la capacità di riuscire a vivere fino in fondo ogni esperienza, senza paura, senza bugia; si avvia un dialogo con l’autrice ricordando – il libro porta inevitabilmente a farlo – il proprio passato; ci si sente parte di uno stesso universo.

Oreste Bellini














Roberto Borghetti, Insondabili nodi, Aljon Editrice, 2008, 55 pp, Euro 10


Da dove nasce un libro di poesie? Dalla fantasia, dalla realtà, dai sentimenti, dalle passioni, o che altro? Certo, non dalla quotidianità, primo perché l’odiata normalità non genera poesia, così si dice...S’incominciano a trasformare le parole, le si rendono diverse, inimitabili, grazie ad un aggettivo imprevisto, uno slogan ad effetto. Ed avviene il miracolo: il suono improvvisamente prende vita ed affonda la quotidianità. Ma quando è proprio l’osservazione spietata del vero che genera poesia, allora al miracoloso suono si aggiunge lo profondità dell’esistere.
Insondabili nodi , la prima raccolta poetica di Roberto Borghetti, sembra esprimere il groviglio in cui l’uomo contemporaneo si trova inestricabilmente invischiato, o si è trovato ad essere, l’incertezza non come scelta ma come un’abitudine, frutto dell’adattamento al reale, non già perché non si cerchi un’alternativa, ma perché non è possibile cercarla e meno che mai trovarla.

Un estraneo alla vita è l’uomo di Roberto Borghetti, per il quale il tempo non ha inizio né fine, ma si appiattisce sul quotidiano e non dà speranza di cambiamento (la metamorfosi agognata da Ovidio si è trasformata nell’inerzia di Kafka): non c’è scampo dai nodi. I temi usuali dell’inestricabile rete del vivere accompagnano la metamorfosi bloccata, la morte si cela dietro i versi di “Tremula notte”: Disteso dove il pensiero è piaga dell’infinito/ serbi la ferita che più non sanguina, e piangi/ (...) Poi ti sorprenderà la solitudine di una marea/ che segna la sua traccia di sale sul fasciame marcito/ di barche sconosciute alla morte. Non c’è una resa ma la presa di coscienza dell’incomunicabilità umana, come in “Treni, scorci e cos’altro rimane”:Siamo noi gli alberi che non fanno ombra/ sulla ferrovia ferma di treni e mai/ discorriamo tra noi sulla fine dei binari (...).
La raccolta presenta più di una volta l’immagine dei treni, della stazione, dei binari, dei bagagli e quindi del viaggio, ma non un viaggio reale, come si sarebbe auspicato un qualunque poeta del ‘700 o dell’ ‘800 ( e da qui la netta separazione con la crisi dell’uomo contemporaneo), né una fuga nel passato o nell’ esotismo, o ancora una semplice metafora della vita, ma un’acerba e cruda immagine dell’impossibilità, del mancato incontro. Quasi un opposto dei nodi, i binari non s’incontrano ma vanno paralleli, la stazione è solo sosta, il treno non permette di affacciarsi, senza una partenza e meno che mai un arrivo. Così in “Bagagli dismessi”: Tanto se dovessi tornare nessuno s’accorgerà/ indosserò tristezza/ abiti eleganti/ per fingere anche nel pianto.
Anche i titoli delle singole poesie della raccolta raramente richiamano il testo, per l’inevitabile rottura con il tutto, poiché l’io diviso non cerca specchi, ma frammenti, in continuo ossimoro con se stesso come in “Vi ritrovo ancora”: E la gioia non tarda a venire/ antica amica del cieco dolore.
Ma l’autore ci sorprende e comincia un dialogo con il «tu» dalla poesia “Raccontami i silenzi”...Il «tu» di una donna, di una madre, di un padre? Un «un» e non un «il». Solo alla fine ci sarà una sorta di riconciliazione. Ma andiamo con ordine. Roberto Borghetti, in questa desolata visione del groviglio inestricabile del non senso, si distingue per una profonda capacità di far parlare il paesaggio, di fare scarti improvvisi per isolare l’uomo e riportare l’attenzione sull’incapacità di comunicare (il dialogo con il «tu», appunto), di trovare un senso ed in questa parte campeggia l’io sperduto, ma non diviso o lacerato, poiché trova nella noia e nell’oblio antinomicamente la sua pienezza. Da qui una serie di titoli, che richiamano il rapporto interrotto tra passato e presente, avvinti dall’alienazione interiore più che esteriore: “Sulla tela annoiata”, “Una calma trafittura”, “Camminare è anche smarrirsi”, ed inoltre “Sassi”, “Timidamente Vieste” e “Verso il poggio”, nella quale si nota l’impossibilità del poeta di trovare senso nella natura conosciuta e familiare: E lasciarsi affogare dalle lacrime/ di scorci che non hanno più giaciglio/ e più non sanno innervare speranze”.
La certezza, unica e assoluta, è l’impossibilità di «stare al mondo», ricreando antiche armonie, ormai perdute o mai possedute (da qui nasce un lacerante ritorno ai ricordi del passato o alle vite degli altri –antenati, amici- che non riesce a ricreare nella propria esistenza).

E si arriva all’ultima parte, nel tentativo di riprendere un percorso, infatti, il poeta ritrova un legame con «il» padre in “Coltiverò in assenza il seme”: Le sparse radici, restano/ e mi è lieto il vivere accanto ad una terra/ che non m’implora solo acqua, ma inverni/ meno pietosi al gemmare dei rami. Questo legame acquista più spessore poi in “Ancora gennaio”: Padre è passato troppo tempo/ tornerò presto a rinnovare i fiori.
Centrale a questo punto è la poesia “L’esilio ha inizio dalle stelle”, in cui si evidenzia in tutta la sua tragicità la fragilità umana, divenuta paradigma dell’esistere, riflesso della mancanza di appartenenza, di un posto nel quale dimenticare il proprio isolamento, la certezza di non esser-ci; volontario o incompreso isolamento, un percorso che l’ha portato altrove, ma un «altrove» senza identità: Siamo solo particelle di vapore nel respiro del capodoglio/ formiche d’inverno nell’ondeggiare dell’erba smeraldo/ distese prossime a fiori e rovi/ che il gelo spezza a metà del gambo.
Alla fine Roberto Borghetti ritorna a se stesso, senza paura e senza rimpianto, accettando la sua dimensione di uomo moderno, non più titano ma semplicemente uomo, nella sua compiaciuta solitudine senza estasi come in “Fantasmi a Milano”: Non scenderò alla mia fermata/ ho visto randagi affannati, adoro/ regalare carezze a chi mi scodinzola incontro.
Angela Lo Passo