lunedì 12 ottobre 2009


Antonio Castronuovo, La vedova allegra. Storia della ghigliottina, Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, Viterbo, 2009, 248 pp., 14 euro.

«Il guerriero tacque, e vidi un vecchio avanzare in mezzo alla folla, arrivato ai pali di sangue, il vecchio si tolse l’abito, si mise in ginocchio e pregò. Mise un piede saldo sul primo piolo della scala, e, mentre saliva di gradino in gradino, sembrava innalzarsi verso il cielo. I capelli bianchi gli ondeggiavano sul collo rugoso e abbronzato; il vecchio petto messo a nudo respirava tranquillamente sotto la tunica dischiusa: lanciò un ultimo sguardo sulla Francia e la morte lo legò in alto come un fascio di grano mietuto». Così François-René de Chateaubriand, testimone dell’onda rivoluzionaria e del fatidico Terrore, proietta nell’epopea indiana de I natchez le tappe cadenzate di un macabro rito. La pubblica esecuzione sulla forca di un vecchio religioso sotto i “fasti” del Re Sole si fa richiamo a ritroso di una pratica moderna: la decapitazione col suo efficientissimo strumento, la ghigliottina. Lo spazio di un paragrafo d’arte letteraria – dove a prendere la parola e a “far vedere” è un Indiano d’America – dischiude allora un più tragico scenario: in qualsiasi tempo, sotto diverse spoglie (monarchiche o popolari), la malvagità umana ha progettato i suoi mortiferi alambicchi.
Nell’intento di seguirne le tracce, l’importantissimo studio documentario di Antonio Castronuovo, La vedova allegra, edito da Stampa Alternativa, arricchisce e sgomenta. La scoppiettante immagine di copertina ci introduce al viaggio nel testo: un caricaturale Robespierre si prepara a far piovere la lama della «dolce amante» (sempre lei, l’ascia del popolo) sul collo regale di un tramortito Luigi XVI. E, le pagine dei libri lo confermano, la testa del Borbone sarebbe rotolata: Place de la Concorde, Parigi, 21 gennaio 1793.
Ciò che è singolare, tuttavia, è la genesi dell’attrezzo. Castronuovo lo sottolinea a più riprese e chi si è già accinto a interpretare il volume non ha mancato di farvi riferimento: «la vedova allegra» ha natali democratici! Nell’autunno del 1789, pochi mesi dopo la presa della Bastiglia, il dottor Joseph-Ignace Guillotin proclamava dinanzi l’Assemblea Nazionale una legge in grado di arginare l’arbitrio della giustizia: parità tra crimine e pena, indipendentemente dal ceto sociale dell’accusato. Da vero amante del prossimo, si prodigava inoltre a fornire al paese un arnese che mettesse fine ai giorni del condannato con indolore rapidità. La costruzione della macchina da guerra doveva poi caricare la mietitrice di vittime di quel blasone infernale che mai smetterà di seguirla.
Solcando con l’occhio i capoversi dei diciannove capitoli che costruiscono il saggio – non senza aver gustato prima un’introduzione dall’eloquente titolo (“Tanto per sbirciare nell’orribile segreto”) – si sarebbe tentati di esclamare: “Ah, controversa cultura dei Lumi!”, o di scandagliare sbigottiti il vero senso della triade patriottica (“liberté, égalité, fraternité”). Dopo un collaudo a base di “pecore” e “cadaveri”, il pasto di fa ben più succulento per la “novella signora del Terrore”; banchetto d’apertura a suon di carne viva: «Si giunse al grande giorno, quando il collo del ladruncolo [un certo Nicolas-Jacques Pelletier] poté funzionare da cavia per la nuova macchina, finalmente inaugurata il 25 aprile 1792» (p. 107). E da lì, ingrasso generale. Quanto meno, abbuffata varia ed equilibrata: da intellettuali e dottori ad avvocati e notai, da borseggiatori senza scrupoli a nobili e persino sovrani. Fino a realizzare il più felice pegno della Storia, quello per cui chi agisce a sua volta subisce: Robespierre dà la sua testa alla “vedova allegra” il 28 luglio 1794.
E il catalogo non doveva terminare lì; la Francia repubblicana avrebbe continuato ad adornare le sue piazze di ghigliottine fino al 1977. Impensabile, forse, nel secolo della scienza e del progresso, ma ampiamente concepibile in quello del fanatismo e del potere. Senza esigenza di glosse, il passaggio qui di seguito (p. 5): «Tra le tante cose che scrisse, Lacenaire [omicida prigioniero della Conciergerie - 1835] gettò su un pezzo di carta una manciata di versi, nei quali salutava la macchina che di lì a poco lo avrebbe abbracciato e giustiziato:
Salute a te, mia bella fidanzata,
tra le cui braccia mi devo ora abbandonare!
A te il mio ultimo pensiero,
io fui tuo fin dalla culla!
Salute, o ghigliottina, sublime espiazione,
che sottrai l’uomo all’uomo, e lo redimi dal crimine,
in seno al nulla, mia speranza e mia fede!»

Pierino Gallo

giovedì 2 aprile 2009


Pierino Gallo, Geometrie dell’inganno, Aljon Editrice, 2008, 62 pp, Euro 11.

1. Dell’uomo e del poeta ovvero l’erranza e l’assenza; non solo nel senso dell’ingannare-ingannarsi ma soprattutto del vagare, del camminare e del “non esserci”. E’ il richiamo di Pierino Gallo in questa sua nuova opera. Il titolo “Geometrie dell’inganno” è l’ottica distintiva da cui si osserva quella condizione dell’umana presenza, vittima della negatività disarmante delle stereotipie e delle forme sociali consolidate. Solo ad una prima lettura il poeta sembra cedere all’abbandono, soccombere all’estreme polarità: la resa alle antiche dicotomie luce/ombra, presenza/assenza, grigiore/colore, gioia/ dolore che accompagnano l’Attesa.
I soavi licor e i succhi amari, emblematico prestito dal grande Tasso, utilizzato nel sottotitolo, ne indicano il percorso a cui il lettore andrà incontro. Ma è solo in apparenza così. E’ una impressione. Nella costruzione e nello sviluppo del testo, semmai, mostra che il poeta non si lascerà trascinare dal tempo/evento e dalle costellazioni del dolore. Al contrario, sarà capace - da abile regista del proprio stato - di gestire con consapevolezza ogni passaggio, ogni contesto, qualsiasi consuetudine. Dunque, per consegnare ( e anche per consumare tutto questo), Gallo accede ad un corpus lessicale di forte impatto: le maschere, la beffa, l’enigma.
Ad esso associa personaggi che, per figura e azione, hanno rappresentato metaforicamente, nella storia della letteratura universale e nell’immaginario, le inibizioni che destrutturano il vissuto. Il Ciarlatano, il Bugiardo, l’Omertoso, il Buffone, l’Avaro, l’Adulatore, Arlecchino condensano l’idea di intralcio, di ostacolo. Sono perennemente in scena e fanno scrivere bei versi alle spalle del mondo.
In questo itinerario poetico, Pierino Gallo affida ad ognuno di loro, per esplicitazione di significato, un ruolo: ne segnala il conflitto, il comportamento, la problematica sofferta.
Attraverso una sottile tecnica di avvicinamento, li riporta in superficie volontariamente ( come si dice “far venire allo scoperto”) per capirne il senso, l’intenzione e neutralizzarli:… e la maschera…e lo scacco che ti giocò il tormento del continuo ingannare..(pag. 39-Arlecchino).
La nostra esistenza pubblica, nell’immenso teatro della vita quotidiana, è popolata di queste pluralità. “Odio ridere beffardo delle maschere/ Odio ridere beffardo dell’istrione …ricordano i timidi sberleffi di un bambino”. Maschere e poi beffe spingono a negare se stessi per un Altro-essere che non c’è, che non ha alcuna destinazione e che non è nemmeno la nostra proiezione. Dunque, l’enigmatico, che si impadronisce di ogni passo o movimento della nostra scena, è causa di erranze e assenze. Significativi i versi di pag. 32: “ La poesia delle maschere/ ha questo d’incanto: fa scrivere versi,/non sapendo di farlo./ Capovolgimento/ di falso e natura,/di vita e artificio”. Ricordano tanto le intricate storie dei personaggi pirandelliani e la stessa ricerca di “Geometrie”, secondo il mio parere, si muove su questa linea di scandaglio.

2. La dissoluzione della propria individualità e l’allegoria del tempo (o dei tempi) danno la misura dell’inganno, la cui capacità plurale fa naufragare qualsiasi progetto e lo sovraespongono alla sofferenza e all’incertezza. L’inganno rovina lo sforzo di ri-ordinare la propria vita. Gli inganni turbano ogni relazionalità, la dimensione delle proprie emozioni, del pianeta sentimento e impediscono di raggiungere mete e affermazioni.
Il “piano geometrico degli inganni”, a cui si riferisce il nostro poeta, è un sistema chiuso. La perfezione si dispone come calcolo per equilibri irremovibili, un sistema chiuso che crea materia e condizione per complicanze del ragionare e pre-giudica, qui, la ripresa nell’assenza.
Scrive Gallo a pag. 42: “I mocassini sulle scale reclamano memorie … aeroplano di carta all’ombra…meglio fingersi impavidi che cucirsi le ali mosse convulse che investono l’oracolo del sommo inganno”. Illusioni e simulazioni non aiutano. Tuttavia né coraggio né spettri sapranno coprire il vuoto lasciato (vedi anche il rimando a E.A. Poe, a Eiros e Charmion, Monos e Una). Anche in situazione favorevoli, “l’urne dei poeti, in pieno giorno, vivono degli avanzi della sera”, a dire di quel che resta. Solitario e ramingo va il poeta e l’anello dell’erranza è concepito come catena o come muro di un labirinto o considerato alla pari di un varco che, viceversa, facilita e non ferma il “viandare circolare”, il ritornare sulla medesima posizione più che verso l’Altrove. L’anello dell’erranza è un maledetto sigillo che ne identifica la condizione e complica la tendenza a liberarsi dalla tela geometrica rifondante nuovi inganni.
E c’è sempre un muro associato all’assenza, che richiamano vicendevolmente (“rugosi/ i calcinacci/ sul muro/ ricordano della tua/ mesta assenza”).
Uno specchio, forse un punto fermo o una via d’uscita. Strane forme sul muro tracciano la consapevolezza dell’ALTROVE ma se quella creatura sul muro è frutto delle visioni, ecco riapparire l’enigma, ritorna la paura dell’inganno con… il profilo dell’uomo che si assottiglia (pag. 27). Felice scelta, intreccio efficace per preparare un nuovo avvento. Sebbene qualcuno abbia chiuso gli occhi in fondo al molo, è il sole che nei porti della continua assenza dislega inafferrabili matasse. Sul frammento, però, si ricostruisce. La via maestra non dava scampo al ciglio del burrone, ogni singolo pensiero reclama ali, angeliche, remote.
Panegirico degli anni, fili dell’altalena oltre le ombre, sentieri snelli al ragno tra le fronde.
Si fa strada il bambino che sulla pietra più bella scriveva i nomi dell’infanzia , l’urlo della cicala che rimette in marcia, lavorìo di forme su strale consunto e rinato.
La ricerca di senso diventa ricerca di se stesso. In questa parte del libro, l’autore, propone un altro blocco lessicale, in positivo: il viandante e l’estrema scelta di restare per sempre bambino, (pag. 26), il cappello scucito del poeta, per diverse esistenze lontano dagli uomini che infine ricorderà d’essere nel mondo (pag. 28), il suono della voce, della pioggia. Tutte svolte semantiche come l’attesa …ora avanza il mio ardito aspettare…narrerò alla mia voce il segreto rumore dell’eterno, (pag. 37)…le corde del liuto suono, nell’ombra le modello dal cuore l’altrove…(pag. 29). Questo è il momento in cui Gallo compie lo sforzo di richiamare nel proprio percorso, (quasi a reclamare soccorso, sostegno, assistenza), testimoni-tutori della grande poesia e arte mondiale attraverso le individuali esperienze: De Chirico-Klimt, Neruda, Montale, Poe, Verlaine e lo stesso Tasso. Le prove affrontate chiedono di andare, non importa dove o se hanno il sapore della confusione. Non importa se ricordano il continuo vagare tra Amore e Morte. L’importante è andarsene, afferma Gallo, riconoscere all’alba il bagliore nascente e andare avanti, così come si è arrivati. “Nessuno si accorge che è più facile amare piuttosto che vivere appena”. Ebbene, la scoperta dell’Amore, così potente e così semplice che libera e sconvolge.

3. Con questo libro, Pierino Gallo arricchisce la sua scrittura poetica, dimostra straordinaria competenza e personalizza un modello stilistico. L’approccio del lettore spesso non è facile in virtù dell’intensità del codice scelto e della polisemia dell’impianto espressivo. Ne ammiro la serietà della proposta letteraria. Il verso è fortemente radicalizzato, interiorizzato, mediato, curato, filtrato. Ogni parola è passata al setaccio. Il lessico è più ricercato e nuovo (sull’esempio di Montale). Geometrie è un decisivo passo in avanti nell’uso dello strumento linguistico espressivo nell’elaborazione letteraria, nulla è a caso o affidato alla spontaneità dell’ispirazione lirica. Apre e chiude diverse liriche con lo stesso tenore, con la stessa chiave d’avvio. Vi sono testi altamente lirici: “Inafferrabili matasse” (pag. 13)… “ Ti troverò. nascosta tra le brame dell’autunno” (pag. 23)…” Nella bocca dei falchi” (pag. 49)…”E’ rimasto l’odore del vento”(pag.55)…”Portami il girasole” (pag. 59).
E’ la poesia dei poeti, quella che fa bene al cuore e alla letteratura. Quella che si affida a noi come voce della pioggia, che scaturisce per natura e cultura (interessante in questo senso il riferimento al popolo indiano Navajo). In una bellissima e toccante lirica, Gallo ci ricorda che “Nel rumore /di ghiaccio/che sveglia /la terra,/fustigante/bellezza/del vano/sillabare” nasce il volo dell’intrepida poesia, come nel gioco delle raganelle. A conclusione dell’opera, per sottolineare questo meraviglioso rapporto Vita/ Poesia, Gallo ritorna a Eugenio Montale e al famoso componimento Portami il girasole ch’io lo trapianti. Il fiore giallo montaliano quale emblema, testimonianza o passaggio di percorsi. Scrive ancora: “Portami il girasole/ che all’Inferno conduce”. Aggiungo: ma solo per capirlo, …anzi con marmorea volontà di capirlo, per cercare la salvezza (la pasoliniana salvezza, riferita ne’ Le ceneri di Gramsci) per un altrove irraggiungibile a qualsiasi geometrico inganno.
Piero De Vita

giovedì 5 marzo 2009


Rosanna D’Agostino, Pregare a casa di Suor Semplice. Un cammino verso la santità, Il Coscile, 2008, 268 pp, Euro 15.

All’angelo bianco e a tutti quelli incontrati in volo. Questa la significativa e pregnante dedica posta ad apertura di un recente lavoro dell’antropologa Rosanna D’Agostino, Pregare a casa di Suor Semplice. Un cammino verso la santità. Forse sfogliando le prime pagine del libro ci si potrebbe credere smarriti in un campo come quello della critica e dell’osservazione demologica, ma non è così. Catturato dal dettato piacevole e chiaro dell’autrice, il lector in fabula aggancia il suo cappotto ed inizia il viaggio senza mai distrarsi, senza mai sbandare. E questo, per la rara capacità di chi scrive di coniugare contenuti e forme senza asperità: il contenuto, la figura di un’ancella della santità e del suo cammino; la forma, quella di un percorso altrettanto celeste e scolpito.
Capitoli e paragrafi si susseguono secondo una progressione lineare. La D’Agostino inaugura il discorso tracciando le linee biografiche della sua guida spirituale Suor Semplice (1873-1953). Poi sperimenta devozione, ritualità sacra dello spazio e antropologia della parola orante, indagando i luoghi della donna. La sacralità si fa quotidianità e rivive ora nel “verbo arcaico” (la preghiera) ora nei rapporti umani.
Tuttavia, la forte componente affettiva che accompagna la studiosa non esula mai da un alto grado di scientificità. Lo dimostrano i documenti raccolti in Appendice e ordinatamente suddivisi in Interviste, Dossier fotografico, Preghiere e canti, Fonti manoscritte. A confermare ulteriormente la serietà professionale dello scritto, infine, una esaustiva bibliografia.
“Santa” prima ancora e a prescindere dagli organismi competenti, Suor Semplice rivive nella sua Castrovillari, in Calabria, spostandosi tra documentazione e narrazione, nutrendo incessantemente le pagine di questo libro e continuando ad illuminare le strade degli uomini.
L’esergo al Capitolo 1 riassume bene quell’anello di congiunzione che il mistero insito nella santità rivela al mondo, senza mai contaminare quel supremo ed eterno progetto d’Amore: « Accade sempre qualcosa di particolare quando si incrociano la dimensione individuale e quella collettiva, e l’incontro può assumere diversi aspetti. Un individuo può avere la fugace sensazione di essere testimone della storia che si sta compiendo » (M. Augé, Perché viviamo?)
Quella storia colta nel suo farsi, nel suo statuto evolutivo, ma altresì nella sua perfetta e definitiva compiutezza di disegno divino.

Pierino Gallo

sabato 3 gennaio 2009



Pasquale Montalto, I Colori dell’Amore, Nicola Calabria Editore, 2008.

L’insieme di questa nuova opera poetica, è lo svolgimento particolarmente felice di ricordi ed emozioni dove sfumano scie di nostalgie e sprazzi luminosi e caldi d’amore. In questo misurato ed elegante volume, c’è tutto quel che di bello, d’intelligente e di godibile si vuole trovare in un libro di poesia.
Non è certo una cosa nuova ritrovarsi tra le mani un libro di Pasquale Montalto, ma ogni suo lavoro è sempre una piacevole sorpresa, perché la sua dolcezza e la sua profonda sensibilità, coinvolgono sempre il lettore. Personalmente noto che questo bravo Autore ha il potere di far emergere, regolarmente, da ogni suo poetico dire, tutto lo splendore del suo intimo mondo, che fa accendere su di sé l’attenzione e l’interesse. Con la poesia egli tratteggia immagini, fa volare pensieri e crea versi toccanti, che escono dai misteriosi silenzi della sua anima gentile, dalla concretizzazione della sua mente fertile e, contemporaneamente, con la memoria impegnata a custodire ricordi e ricercare profumi di fiori e tutti i magici colori di quell’armonia bellissima che è l’amore. Colori e confronti luminosi, che volano nel sole come farfalle.
L’abilità strutturale di queste belle liriche le rende Poesia vera, quella che è specchio reale in cui il mondo vorrebbe riflettersi. Profondamente delicata e incisiva è la capacità di Montalto di usare un metodo tutto suo e che, coadiuvato e ben sostenuto dai dolcissimi disegni dell’amata moglie Alice Pinto, assume maggior valore, perché i disegni vengono inseriti con molto gusto e appropriatezza, stendendosi sui fogli come su verdi prati, dove l’Artista, con la squisitezza tutta femminile e amorosa, semina i colori dei suoi fantastici fiori. Da questo meraviglioso affiatamento il libro si rivela un lavoro ben costruito e ottimamente sviluppato che, affiancato ai precedenti volumi, con la tradizionale attenzione che l’Autore riserva alla poesia, raggiunge un vibrante e rigoroso traguardo lirico, in particolare con le poesie d’amore che suscitano forti e coinvolgenti emozioni e sentimenti.
Questo perché l’Amore, nelle poesie del bravo poeta calabrese, ha un posto d’onore, diventando, con la grande musicalità che sprigiona, una vera e propria sinfonia, un melodioso concerto, dove anche la parola si carica di sonorità e ricerca l’amorevolezza del sentimento, attraverso il ricordo. Altrettanto interessanti le tante liriche con tematica sociale. Lo psicologo e l’artista possono allora armonizzarsi per estrarre versi melodiosi e essenziali, con un dosato equilibrio che consente di far esplodere in Montalto le sue ottime capacità poetiche, riflesso delle vibrazioni sonore dell’anima. L’Autore mette nella sua lodevole passione poetica un profondo impegno reso tangibile dalla resa stilistica di ogni suo lavoro: poesie che diventano immagini, anche quando contengono tra le pieghe veli di leggere malinconia, perché in esse, il clima vagamente crepuscolare, affascina il lettore, che ritrova qualcosa della sua stessa vita, anche se gli avvenimenti risultano poi legati da fili diversi. Ma la sensibilità ne è sollecitata e la memoria si affianca a quella del poeta, alla fantasia e alla realtà del poeta.
Pasquale Montalto con I Colori dell’Amore unisce, con straordinaria forza memoriale, passato e presente e, nelle pagine del libro, raccoglie il suo stesso cuore, mentre i suoi versi e i disegni della moglie, tenuti per mano, proseguono insieme, guardano il cielo e sorridono. Perché sanno che domani essi partoriranno altre parole, altri disegni e quadri colorati, offrendoli al mondo come un profumatissimo dono floreale.

Flavia Lepre

lunedì 15 dicembre 2008



Pasquale Napolitano, Frammenti del fuoco, AljonEditrice, 2008.
“Il libro ci rinvia a un solo libro: quello della nostra lettura. Avendolo letto, non avremo condiviso niente, ma avremo tenuto tutto per noi o concesso tutto senza contropartita. Secondo l’esempio soverchiante di Dio.
“Come leggere una pagina già bruciata in un libro che brucia, se non facendo appello alla memoria del fuoco”, diceva un saggio.
E aggiungeva: la traccia lasciata da un libro, forse, è soltanto un persistente odore di istanti bruciati . Il tempo necessario a un mucchietto di cenere, per finire di consumarsi, varia secondo la sua durata.
Diceva ancora: La fiamma si ricorda solo della fiamma. Così il patto col libro non è che il patto segnato dal fuoco. Il nome muore per primo.”
Nella prova di vivere profondamente la vita di questa raccolta di poesia di Pasquale Napolitano, Frammenti del fuoco, edito da Aljon Editrice, queste parole iniziali di Edmond Jabès rappresentano certo, nella loro oscura esigenza di manifestarsi non tanto per farsi intendere, ma quanto di farsi sentire appieno dentro di noi, un buon esercizio per apprestarsi alla condivisione.
Poi il libro di Napolitano ci accoglie nel suo mondo di carta e di segni, nella sua vita che traspare lungo il viaggio dello sguardo.
È ogni istante del libro è lì, sulla pagina, che attende visitatori sconosciuti ma sempre ben accetti per viverne il senso e l’anima che lo alimenta.
È un libro splendido perché specchio di una vita e di un percorso.
È un libro che nutre lo spirito e la parola è sempre carica di un mistero, mai oscuro, ma rivelatore del qui e adesso, uguale e sempre diverso, nella consapevolezza che se si guarda col cuore il mondo non può che vedere se stesso… Leggiamo:

Quel lama tibetano
o, forse, monaco trappista
o guru hymalaiano,
non diede risposte,
ma disse:
“Fratelli son parte del gioco.
Tra le tante
ho imboccato una porta:
tener vivo il sentiero
dell’accettare le cose
così come stanno”.
Come a dire io non cerco ciò che voglio, ma ciò che mi accade. E sono infinitamente in ciò che mi accade perché qui e adesso io sono: ieri non esiste più, oggi si consuma nelle grafie del respiro dell’istante, domani non esiste ancora.
Ogni poesia di Napolitano è qualcosa di più anche quando ci consegna istanti privati. Come in questa poesia a pag. 23:
Si va cercando una sintonia
con la stagione che cambia,
con i segni lasciati da altri,
con i vasti modi
d’intendere la vita:
una lanterna
sospesa tra i rami di un pero,
una carriola
adattata a fioriera,
un orto
rigato a pentagramma.
Tra le ultime pannocchie
giostra una girandola
e nostra figlia Paola che dice:
“Anch’io papà voglio
catturare il vento”.
Ma certo, dolce mia.

Da qui con Confucio dire:
“E’ necessario conoscere il punto dove bisogna fermarsi, il punto al quale arrivare. Conoscendolo, si ha la tranquillità. Avendo la tranquillità, si ottienila pace. Ottenendo la pace, si possono prendere le decisioni. Potendo prendere le decisioni, si può agire.”
Si respira aria di pace in questo libro di poesie.
Una pace cercata ovunque gli occhi non guardino distratti.
Misurata con il senso e il sapore delle cose.
Mai rincorsa.
Neppure attesa.
Nessuna forzatura nell’accoglierla.
Ma semplicemente respirata sotto l’ombra di una grande statura morale.
E poi l’incontro con la poesia. Naturale, una lezione di armonia nel canto della vita e della pagina.
Ma è sempre il fiore dell’anima ad aprirsi. E porta fiducia, certezza, sapienza.
A pag. 39 leggiamo:

Scrivo
le poesie
che avrei voluto leggere.
Da Pablo
le poesie
che avrei voluto vivere.
Solo di vissuto
scrivo.


La scrittura. La lettura. La vita. Un grande poeta: Neruda.
“La leggibilità – direbbe ancora Jabès – ha i suoi limiti. Solo sui nostri occhi, sulla nostra intelligenza possiamo contare, per tentare di cogliere ciò che lo scritto contiene; solo attraverso i limiti insopportabili di una parola letta possiamo accostare l’infinito di una parola da leggere. Sicchè è sempre contro una parola impossibile che urtiamo; e a cui sacrifichiamo la nostra.”
E qual è questa parola impossibile, quale se non quella che parte da un silenzio puro, da un ascolto teso che fa emergere le vibrazioni, i ritmi, i polsi delle cose?
Napolitano è del suo vissuto che scrive che non è mai ordinario.
Il clamore del mondo non soffoca la sua voce interiore. Vede con i suoi occhi e con il suo cuore. Sa cogliere l’aura spirante dalle persone e dai luoghi. Ha imparato a vivere sapendo che questa lezione non gli servirebbe a nulla se appesantisse la sua anima.
Con Confucio ancora direbbe:
“ So che la norma non può essere spiegata. Gli uomini elevati vanno oltre ad essa, gli immeritevoli non giungono a capirla. Non è forse vero che tutti gli uomini possono mangiare e bere, ma soltanto pochi sanno capire ciò che ha sapore?”
C’è una poesia che amo molto in questi Frammenti del fuoco ed è quella a pag. 24. Recita così:
Non sono questi
i versi di domani,
quelli
navigano ancora
dentro altri inchiostri,
verso altri fogli,
portati, forse,
da altre mani.
Non sono queste
le nuvole che verranno,
quelle
dormono ancora
nella bocca dei pesci,
e sono onde
che sanno di sale.

Presente e futuro sono qui raccolti. Tutto è vivo qui. Ciò che non si vede e ciò che si vede. Ciò che accade e ciò che accadrà.
Il poeta sembra suggerirci: ci sono io e c’è il mondo, siamo onde dello stesso mare. Siamo quel mare. In quando onda possiamo anche illuderci di essere qualcos’altro, ma mai smetteremo di essere quel mare.
Anche l’opera di Francesca Rizzuto, Percorsi casuali, pubblicata sulla copertina del libro riesce a cogliere a pieno, nel suo mistero questo incontro di anime, di mondi, come a ribadire la forza e la grandezza di questo mare che contiene tutto e il contrario di tutto, perché il senso della vita sta fuori e dentro di noi, nel cuore di un evento interiore uguale e diverso che nasce, vive, muore, rinasce quando lo spirito, la pura capacità testimoniale nell’uomo, si eleva al di sopra della psiche e dei relativi condizionamenti corporei.
Per concludere, parafrasando Blanchot, se ritenessimo utile sintetizzare in pochi tratti essenziali la forza della poesia di Pasquale Napolitano e dell’arte di Francesca Rizzuto, potremmo accontentarci di dire, che in loro c’è questa parola e questo sguardo futuro, impersonali e sempre a venire, là dove, nella decisione di un linguaggio nascente, ci viene comunque parlato intimamente di quel che a noi prepara il destino più prossimo e immediato. È per eccellenza il canto del presentimento, della promessa e del risveglio – non che sia Napolitano che Rizzuto esprimano quel che sarà domani, né che in loro ci sia rivelato con chiarezza un avvenire felice o infelice , ma soltanto il collegamento, nello spazio del presentimento della parola, dell’immagine al loro corso per trattenere con fermezza la nascita di un orizzonte più vasto.
L’avvenire è raro ed ogni giorno che viene non è un giorno che inizia.
E ancora più rara è questa parola poetica, che nel suo silenzio è riserva di una parola a venire e ci volge sia pure nel momento supremo di una fine, verso la forza dell’inizio.

Bonifacio Vincenzi

sabato 25 ottobre 2008



Anna Maria Farabbi, La luce esatta dentro il viaggio, pp.19, Aljon Editrice, 2008.

(copertina di rame, a tiratura limitata, in cinquanta esemplari, numerati e firmati dall’artista Francesca Rizzuto che ha realizzato a mano sia la copertina che la legatura di ogni singolo libretto. La stampa, in caratteri Garamond, è invece su Carta Tintoretto da 350 grammi delle cartiere Fedrigoni .)

C’è un qualcosa che ci accompagna senza posa, nel quotidiano deambulare di sguardi, nel variegato riconoscere sensazioni… un qualcosa di inafferrabile, quasi un alito di vento che, nella sua infaticabile corsa, apre a nuovi stimoli sensoriali il nostro corpo. E non è difficile riconoscerne il passaggio, tanto profondi s’impongono i solchi sulle nostre vite.
Ebbene, è l’agire primordiale del logos, la sua spontaneità rituale che assume la forma del verso e si fa vita esso stesso, mettendoci in contatto. Ma è altresì l’estremo bisogno di trasmettere il verbo, la necessità di incidere, di intraprendere un sacrificio materiale che ne concretizzi la natura fugace per poi eternizzarla.
Ci riescono bene, ad eternizzare, Anna Maria Farabbi e Francesca Rizzuto, artefici del prezioso volume La luce esatta dentro il viaggio. Entrambe, colte nel segreto demiurgico del “Fare”: la prima tra gli strumenti semiotici della parola poetica; la seconda tra gli imprescindibili appigli della materia informe.
È come attraversare un mondo, direbbero i lettori, un mondo dove la dimensione metafisica del “non-ancora creato” diventa viaggio verso la realtà degli occhi, della bocca, dell’orecchio. Perché “Il Roseto di Kisgas” (titolo della collana a cui appartiene il volume) nasce proprio con questa esigenza. Così che, il totale coinvolgimento dei sensi passa magistralmente dalla fissità grafica dei tasselli poetici alla sapienza arcaica del lavoro manuale, di quel “rituale di costruzione” che la Rizzuto dimostra di possedere appieno, talvolta smussando il rame della copertina, talaltra forgiando gli anelli che rilegano le pagine.
L’occhio, dunque, non si accontenta di godere delle occasioni testuali più palesi (un viaggio in Namibia cominciato dalla Farabbi nel 1993), ma scandaglia la fisicità del supporto cartaceo sposando arte verbale e arte manuale, sacrificio del “dire” e fatica del “fare”.
In tal senso, la rivelazione del secondo componimento della raccolta, Passaporto filiale per il passaggio, è illuminante:

Mi siedo sul sasso sotto il peso finalmente mi siedo
e finalmente i miei piedi passeggeri fermi
coincidono
nel senso del mio rinnovato cominciamento
dentro queste viscere materne e sorgive.

Ma, se la maternità riassume la natura femminile della collana, solo un rinnovato cominciamento può guidare due donne come Anna Maria Farabbi e Francesca Rizzuto nel lavorìo della forma, nell’architettura spaziale del sapere.
Tanto che gli intenti di poetessa e artista viaggiano sì paralleli, ma snodandosi in modalità essenzialmente complementari: gli ininterrotti riti di passaggio che si sperimentano leggendo i versi, i pregnanti affondamenti nel grembo della terra, o ancora, la narrazione / di una carne geografica (poesia n. VIII) che scandisce la fruizione del canto, sono tutti riflessi dell’affascinante genio creatore di chi ne accoglie, come in uno scrigno ancestrale, le molteplici significazioni umane.
Concedersi, in fondo, resta l’unico valido spiraglio. Concedersi non barattarsi, avere la forza di annullarsi per riemergere nell’anima di qualcun altro in grado di comprendere ed apprezzare i nostri intenti, la nostra incontenibile generosità. Questo sembra essere, infine, il messaggio di questo primo germoglio editoriale nel promettente “Roseto di Kisgas”.


Pierino Gallo

sabato 13 settembre 2008





Maria Pina Ciancio, La ragazza con la valigia, Lieto Colle, pp. 57, Euro 10,00


Ogni volta che ci si avvicini ad un poeta, o come in questo caso, ad una poeta, per usare una definizione più consona ai nostri tempi, non è un avvicinarsi invano, non lo è mai, e non lo è perché qualcosa accade sempre ed è veramente mirabile, come una delicata verità, rivelatrice sempre di quel patrimonio straordinario che ci fa essere ciò che siamo, possa fondersi in questo alone di mistero che è della poesia, mai svelabile totalmente, ma così vivo, così palpabile se accarezzato dal calore di uno sguardo e dal fruscio dei fogli che accompagna sempre il nostro personale percorso di lettura.
Il mio incontro con Maria Pina Ciancio è recente.
Fino a qualche settimana fa, questa vicinanza era racchiusa nell’inconsapevole possibilità dell’avvenire, quella che ci nega al Tutto, ma nello stesso tempo ci fa comprendere che di questa negazione non siamo mai prigionieri, perché noi siamo parte di questo Tutto e lo siamo nella nostra infinita libertà, non tanto percepibile nelle scelte, ma quanto nella capacità di sapersi aprire all’inaspettato, nel momento in cui sollecita “una parola – ricordando Jabès – che forgia i suoi legami di silenzio nel silenzio abissale del legame.”
E i legami in questo volumetto di poesie di Maria Pina Ciancio, La ragazza con la valigia, edito da LietoColle, hanno una loro forza, diventano il giusto tramite per dire che la realtà non è mai fuori dalla poesia, e se lo è, lo è solo apparentemente, perché in questo silenzio ribadito dalle parole, nell’oscuro impulso che la pagina accoglie e poi trattiene, incontriamo inevitabilmente noi stessi e il nostro piccolo mondo degli affetti, ripercorrendo gli strati più profondi della memoria…
A tal proposito, mi pare opportuno leggere a pag. 21 la poesia “Sipario tra le righe”…

Forbici… bisturi… filo
comincio a scucire gli orli del passato
Daria mi richiama e riordina i ricordi
Piera drammatizza e impazzisce sulla scena
il primo attore ha fame e ingoia le battute
Forbici… bisturi… filo
e mi ricucio in fretta
chiavistello sfibrato a doppia mandata”



La pagina diventa teatro di una rappresentazione su cui palpita una trama vagamente musicale. Ci sono gli attori. C’è la vita. Quella che si riconosce e ci riconosce. E c’è la poesia dove la realtà non fa che ribadire la sua assenza e ribadendola la riproduce, diversa all’apparenza, ma mai nell’essenza.
La voce poetica della Ciancio simula i timbri di voci reali che lei conosce bene intonandoli a quella melodia persuasiva e seducente della sua anima sì disincantata ma che sa cercare nel suo fare poesia quella lenta, laboriosa opera risanatrice che riplasma ciò che quotidianamente scompare…

“Te ne andavi in punta di piedi
accompagnata (solo) da tua madre
e una campana a lutto

il fazzoletto già nero
e il rosario annodato alle dita

e di tutto questo non restava
né volto, né nome in paese

ma solo una storia taciuta” ( pag. 33)


In questa storia taciuta, però, c’era una vita. E quella vita si specchiava in altre vite.
C’è uno spazio di silenzio in ogni istante, dove noi viviamo inconsapevoli di altre vite, di altri mondi. Tutto questo non equivale ad una morte? E non è che la morte, disattivata della sua terribilità, non sia, in una percezione più alta, semplicemente il volto oscuro della vita, quello che non abbiamo il coraggio di guardare?
Per quanto crediamo di saperne alla fine restiamo attaccati alla luce come le falene. Il resto ci spaventa perché sottolinea ed esaspera i nostri limiti.
Nel nostro personale “grido di terra” cerchiamo sulla pagina il nostro passato e nella pausa che per un momento assorbe il mondo esterno, fra gli scatti del tempo, non ci sono conflitti, o se ci sono, significano nulla nelle vaghe ombre animate dallo sguardo…


“… e adesso quando il vento si alzava
e urlava a più voci
sbattevano le porte di quella stanza rosa
dove tutto era fermo (presente e domani)
e i pensieri un rovescio
che il vento di notte percorre

e misura” ( pag. 26)


Da qui la poesia della Ciancio cerca nella parola che non sa sperare quella vita promessa e mai avuta.
La cerca negli occhi di una donna che continua ad esserci nonostante il suo sguardo misuri la densità della sua sconfitta…

“ Ci sono ancora porte chiuse
sulla cristalliera dell’infanzia di Anna
una chiave nascosta
nella scatole di scarpe di suo padre
e silenzi di braccia senza mani
raccolti sottovoce
tra pozzanghere di sogni
virati dall’errore” (pag. 27)

La Ciancio fa poesia non per porre fine a tutto questo, ma per prolungare questo doppio volto della vita, questa estrema lacerazione, questo grido consegnato al Silenzio, nella consapevolezza che comunque, nonostante tutto, questo è parte di noi, importante, e rinnegarlo significherebbe sottrarre a noi stessi gran parte della nostra esistenza…

“… Siamo qui e altrove
assottigliati al vento
e alle parole
in mezzo al bianco
che scandisce e svela
i graffi e le ferite…”

Il premio inaspettato della luce (pag. 57)

Scriveva Jabès:
“Il volto non è là dove si staglia, ma dove si libera dal peso dell’apparenza e della sottomissione.
Questo volto sconosciuto ai miei occhi ma così familiare alla mia anima, lo ricostruisco nei minimi particolari. Fu una volta, luogo puro dello spirito, crocevia di pensieri avventurosi, prima di essere, al culmine della sua miseria, volto d’abisso.”
Ed è lo stesso volto che riconosciamo nella poesia della Ciancio che chiude questa raccolta il cui titolo, La ragazza con la valigia, non a caso, è stato scelto per unire l’intero percorso poetico.
La poesia recita così:

Scese dall’autobus
la ragazza con la valigia e sorrise

con le mani lievitate di terra e luna

sorrise


Questa poesia è la più significativa dell’intera raccolta e di questo la Ciancio ne è consapevole perché in questi cinque versi si respira la vita nella sua totalità.
E le motivazioni di questa affermazione, ora che mi avvio alle conclusione, a darcele è ancora Jabès quando scrive:

“Entriamo nel futuro con un bagaglio limitato. È vietato portar tutto con sé. Ma chi ce lo ordina? Al termine della luce ci si spegne, finalmente nudi, tra le ombre.”

Bonifacio Vincenzi