sabato 13 settembre 2008





Maria Pina Ciancio, La ragazza con la valigia, Lieto Colle, pp. 57, Euro 10,00


Ogni volta che ci si avvicini ad un poeta, o come in questo caso, ad una poeta, per usare una definizione più consona ai nostri tempi, non è un avvicinarsi invano, non lo è mai, e non lo è perché qualcosa accade sempre ed è veramente mirabile, come una delicata verità, rivelatrice sempre di quel patrimonio straordinario che ci fa essere ciò che siamo, possa fondersi in questo alone di mistero che è della poesia, mai svelabile totalmente, ma così vivo, così palpabile se accarezzato dal calore di uno sguardo e dal fruscio dei fogli che accompagna sempre il nostro personale percorso di lettura.
Il mio incontro con Maria Pina Ciancio è recente.
Fino a qualche settimana fa, questa vicinanza era racchiusa nell’inconsapevole possibilità dell’avvenire, quella che ci nega al Tutto, ma nello stesso tempo ci fa comprendere che di questa negazione non siamo mai prigionieri, perché noi siamo parte di questo Tutto e lo siamo nella nostra infinita libertà, non tanto percepibile nelle scelte, ma quanto nella capacità di sapersi aprire all’inaspettato, nel momento in cui sollecita “una parola – ricordando Jabès – che forgia i suoi legami di silenzio nel silenzio abissale del legame.”
E i legami in questo volumetto di poesie di Maria Pina Ciancio, La ragazza con la valigia, edito da LietoColle, hanno una loro forza, diventano il giusto tramite per dire che la realtà non è mai fuori dalla poesia, e se lo è, lo è solo apparentemente, perché in questo silenzio ribadito dalle parole, nell’oscuro impulso che la pagina accoglie e poi trattiene, incontriamo inevitabilmente noi stessi e il nostro piccolo mondo degli affetti, ripercorrendo gli strati più profondi della memoria…
A tal proposito, mi pare opportuno leggere a pag. 21 la poesia “Sipario tra le righe”…

Forbici… bisturi… filo
comincio a scucire gli orli del passato
Daria mi richiama e riordina i ricordi
Piera drammatizza e impazzisce sulla scena
il primo attore ha fame e ingoia le battute
Forbici… bisturi… filo
e mi ricucio in fretta
chiavistello sfibrato a doppia mandata”



La pagina diventa teatro di una rappresentazione su cui palpita una trama vagamente musicale. Ci sono gli attori. C’è la vita. Quella che si riconosce e ci riconosce. E c’è la poesia dove la realtà non fa che ribadire la sua assenza e ribadendola la riproduce, diversa all’apparenza, ma mai nell’essenza.
La voce poetica della Ciancio simula i timbri di voci reali che lei conosce bene intonandoli a quella melodia persuasiva e seducente della sua anima sì disincantata ma che sa cercare nel suo fare poesia quella lenta, laboriosa opera risanatrice che riplasma ciò che quotidianamente scompare…

“Te ne andavi in punta di piedi
accompagnata (solo) da tua madre
e una campana a lutto

il fazzoletto già nero
e il rosario annodato alle dita

e di tutto questo non restava
né volto, né nome in paese

ma solo una storia taciuta” ( pag. 33)


In questa storia taciuta, però, c’era una vita. E quella vita si specchiava in altre vite.
C’è uno spazio di silenzio in ogni istante, dove noi viviamo inconsapevoli di altre vite, di altri mondi. Tutto questo non equivale ad una morte? E non è che la morte, disattivata della sua terribilità, non sia, in una percezione più alta, semplicemente il volto oscuro della vita, quello che non abbiamo il coraggio di guardare?
Per quanto crediamo di saperne alla fine restiamo attaccati alla luce come le falene. Il resto ci spaventa perché sottolinea ed esaspera i nostri limiti.
Nel nostro personale “grido di terra” cerchiamo sulla pagina il nostro passato e nella pausa che per un momento assorbe il mondo esterno, fra gli scatti del tempo, non ci sono conflitti, o se ci sono, significano nulla nelle vaghe ombre animate dallo sguardo…


“… e adesso quando il vento si alzava
e urlava a più voci
sbattevano le porte di quella stanza rosa
dove tutto era fermo (presente e domani)
e i pensieri un rovescio
che il vento di notte percorre

e misura” ( pag. 26)


Da qui la poesia della Ciancio cerca nella parola che non sa sperare quella vita promessa e mai avuta.
La cerca negli occhi di una donna che continua ad esserci nonostante il suo sguardo misuri la densità della sua sconfitta…

“ Ci sono ancora porte chiuse
sulla cristalliera dell’infanzia di Anna
una chiave nascosta
nella scatole di scarpe di suo padre
e silenzi di braccia senza mani
raccolti sottovoce
tra pozzanghere di sogni
virati dall’errore” (pag. 27)

La Ciancio fa poesia non per porre fine a tutto questo, ma per prolungare questo doppio volto della vita, questa estrema lacerazione, questo grido consegnato al Silenzio, nella consapevolezza che comunque, nonostante tutto, questo è parte di noi, importante, e rinnegarlo significherebbe sottrarre a noi stessi gran parte della nostra esistenza…

“… Siamo qui e altrove
assottigliati al vento
e alle parole
in mezzo al bianco
che scandisce e svela
i graffi e le ferite…”

Il premio inaspettato della luce (pag. 57)

Scriveva Jabès:
“Il volto non è là dove si staglia, ma dove si libera dal peso dell’apparenza e della sottomissione.
Questo volto sconosciuto ai miei occhi ma così familiare alla mia anima, lo ricostruisco nei minimi particolari. Fu una volta, luogo puro dello spirito, crocevia di pensieri avventurosi, prima di essere, al culmine della sua miseria, volto d’abisso.”
Ed è lo stesso volto che riconosciamo nella poesia della Ciancio che chiude questa raccolta il cui titolo, La ragazza con la valigia, non a caso, è stato scelto per unire l’intero percorso poetico.
La poesia recita così:

Scese dall’autobus
la ragazza con la valigia e sorrise

con le mani lievitate di terra e luna

sorrise


Questa poesia è la più significativa dell’intera raccolta e di questo la Ciancio ne è consapevole perché in questi cinque versi si respira la vita nella sua totalità.
E le motivazioni di questa affermazione, ora che mi avvio alle conclusione, a darcele è ancora Jabès quando scrive:

“Entriamo nel futuro con un bagaglio limitato. È vietato portar tutto con sé. Ma chi ce lo ordina? Al termine della luce ci si spegne, finalmente nudi, tra le ombre.”

Bonifacio Vincenzi